PREMESSA
Questo articolo, interessante per l’argomento trattato, la corsa allo spazio tra Unione Sovietica e Stati Uniti, esula dalle tematiche consuete de L’ipotenusa. Ma viene qui pubblicato sul sito web anche in considerazione che siamo a 60 anni dall’inizio del volo dell’uomo nello spazio extraterrestre, e che alcuni cosmonauti statunitensi erano Massoni.
Jurij Alekseevič Gagarin (Klušino, 9 marzo 1934 – Kiržač, 27 marzo 1968) è stato un cosmonauta sovietico, primo uomo a volare nello spazio, portando a termine con successo la propria missione il 12 aprile 1961 a bordo della Vostok 1.
Inoltre, diversi cosmonauti degli USA erano affiliati alla Massoneria, e tra questi, Buzz Aldrin, 33° del RSAA, primo uomo, con Neil Armstrong, a posare i piedi sulla Luna, con la Missione Apollo 11 (16 Luglio 1969 – 24 Luglio 1969).

Apollo 11 fu la missione spaziale che portò i primi uomini sulla Luna, gli astronauti statunitensi Neil Armstrong e Buzz Aldrin, il 20 luglio 1969 alle 20:17:40 UTC. Armstrong fu il primo a mettere piede sul suolo lunare, sei ore più tardi dell’allunaggio, il 21 luglio alle ore 02:56 UTC. Aldrin arrivò 19 minuti dopo. Equipaggio: Neil Armstrong, Michael Collins, Buzz Aldrin.
(ds)
Assalto alla Luna !
Mario Anesi
Invano si cercherebbe nel passato qualcosa di analogo al progetto Apollo. Il primo che si presenta alla mente è il Manhattan, che portò alla costruzione della bomba atomica. Anch’esso aveva carattere d’urgenza. Tuttavia, a parte il puro e semplice confronto dei costi, due miliardi di dollari del Manhattan contro i 32 dell’Apollo, sono le circostanze in cui i due progetti vennero impostati che divergono sostanzialmente. Ciò che spinse a costruire la bomba atomica fu la paura, del tutto giustificata, anche se in ultima analisi infondata, della terribile eventualità che Hitler avesse già in mano un’arma del genere. Ora, tra le ragioni che portarono alla realizzazione del progetto Apollo non ce n’era alcuna di così impellente.
Apollo – NASA
Esempi di enormi risorse spese in opere di dubbia utilità li troviamo in civiltà molto lontane: nell’antico Egitto che costruisce le piramidi, nella Cina con la sua armata di terracotta, nell’Europa medievale che innalza al di sopra del circostante squallore le ardite guglie delle sue cattedrali e, più vicino a noi, il supremo monumento al prestigio laico dei palazzi reali del Sei-Settecento.
Ma un paese che si inventi una sfida come quella dell’Apollo e l’accetti ad un prezzo così elevato e con la prospettiva di ricavarci vantaggi materiali e scientifici così scarsi, e poi si impegni a portarla avanti entro un termine di tempo che non ammette insuccessi, è in realtà un fatto unico nella storia. Lo sbarco sulla Luna richiese agli Usa, alla sua popolazione e alle sue istituzioni una mobilitazione di qualità e quantità – oltretutto nel bel mezzo di quel “buco nero” che fu il Vietnam – che non si erano mai viste in nessun paese al mondo.
Si è detto spesso che il progetto Apollo costituisse un’esercitazione della scienza. Anche se fosse vero – e non lo è assolutamente – non spiegherebbe la ragione per cui sia stato intrapreso.
La scienza aveva da risolvere infiniti problemi più urgenti e più utili che non quelli per l’invio di uomini sulla Luna.
Ma non era la scienza il fine ultimo dell’Apollo. E non lo era neppure la sua inseparabile gemella nella retorica dello spazio: l’avventura. Se pur questa ha mai giocato un ruolo in quell’impresa, si trattava di un genere di avventura assai strano. I grandi avventurieri del passato erano figure solitarie che scomparivano per anni in mari incogniti o in giungle inesplorate senza mantenere alcun contatto con il paese d’origine e dati spesso per dispersi. L’astronauta ha alle sue spalle un esercito di migliaia di uomini: non solo è in costante contatto con la base ma i suoi stessi movimenti sono in realtà controllati da terra. Se poi l’unità di misura è il rischio c’è da chiederci se si corrono maggiori pericoli camminando sul Mare della Tranquillità piuttosto che nelle risaie del Vietnam (agli astronauti non era corrisposta una diaria superiore a quella di un pilota in zona operativa).
Ancora. Non è per un profitto economico che siamo andati sulla Luna. È anche questa la differenza che corre tra Armstrong e Cristoforo Colombo: non c’è figura storica che venisse più frequentemente citata, per giustificare la spedizione alla Luna, dello scopritore dell’America. Eppure questo paragone è assolutamente banale e infondato. Colombo, Vasco da Gama, Cortes, Magellano salparono verso l’ignoto alla ricerca della ricchezza. Armstrong era perfettamente consapevole che una volta messo piede sul suolo del nostro satellite non vi avrebbe trovato nulla con un valore venale. Prima che il suo viaggio fosse portato a termine alcuni uomini morirono per colpevole negligenza, vittime della fretta smodata con cui il programma venne condotto.
Per conoscere i motivi per cui fu varato il progetto Apollo andremo dunque agli inizi dell’avventura spaziale.

Washington, venerdì 29 luglio 1955. È in una giornata calda e umida che gli Stati Uniti lanciano una sfida che finiranno per perdere. Il portavoce della Casa Bianca James Campbell Hagerty davanti ai giornalisti va dritto al punto: “Il Presidente (Dwight Eisenhower) ha approvato il piano nazionale per lanciare un piccolo satellite automatico in orbita circolare attorno alla Terra come contributo degli Stati Uniti all’Anno Geofisico Internazionale, che si terrà tra il luglio 1957 e il dicembre 1958”. Quattro giorni dopo, al Congresso astronautico internazionale di Copenhagen, Leonid Sedov, annuncia che “il progetto sovietico potrebbe realizzarsi in un futuro prossimo”.
A che punto erano i progressi missilistici in quel momento? Gli Usa, a parte la ricerca e la produzione di razzi terra-aria e aria-aria non erano granché interessati alla realizzazione di grandi missili balistici: nonostante avessero messo a libro paga nelle file dell’Esercito il 90% degli scienziati tedeschi creatori della V-2, compreso il loro leader Wernher von Braun, di fronte a quell’arma da apocalisse che era la bomba atomica, la massima espressione della tecnologia tedesca appariva ben poca cosa. Nel confronto con i sovietici erano avvantaggiati dal fatto di possedere un’aviazione strategica capace di colpire l’Urss da ogni lato e in qualsiasi momento.

I russi, più arretrati degli americani nel campo della costruzione dei grandi bombardieri e non avendo basi d’appoggio in tutto il mondo, sono i primi ad accorgersi del ruolo che possono rivestire i missili. “Le V-2 andavano bene per spaventare l’Inghilterra. Abbiamo bisogno di missili di lunga gittata in grado di colpire gli Stati Uniti continentali” confida nell’ottobre del 1946 il comandante delle forze aeree sovietiche al capo del laboratorio di aeronautica di Mosca. Nel 1954 viene dato l’ok alla costruzione del primo missile intercontinentale, l’R-7, quello che lancerà lo Sputnik in orbita.

Presa la decisione, Eisenhower deve valutare due alternative, due diversi programmi missilistici. Ovviamente non è facile, perché dietro ogni scelta c’è una lobby militar-industriale. Da una parte è schierata la Marina, che ha già mandato nell’alta atmosfera i missili Viking, congegni squisitamente scientifici: hanno fatto le prime foto della Terra dallo spazio, sono arrivati fino a 250 km di altezza. Oggi ci sembra un’inezia ma allora era un record. Il nuovo missile, destinato a lanciare il satellite, di cui si sa solo il nome, Vanguard, sarà una sua evoluzione, “semplicemente” aggiungendovi due stadi. Il ragionamento dei dirigenti della Marina è semplice: se dobbiamo lanciare un satellite per celebrare l’Anno Geofisico Internazionale, si deve fare con un programma e un veicolo tutto scientifico, senza implicazioni militari.
Dall’altra parte della barricata c’è l’Esercito che con il team di von Braun ha già sviluppato l’erede della V2, il Redstone a due stadi: basta aggiungerne un altro e il gioco è fatto. Tempo un anno e mezzo e il satellite americano sarà in orbita. Ma il problema non è tecnico ma politico: c’è anche una certa ritrosia a far rappresentare gli Stati Uniti da un satellite costruito da un ex maggiore delle SS. Il Presidente decide quindi per la soluzione “scientifica” della Marina.
Per essere sicuri che l’Esercito non faccia scherzi il Pentagono decide di affidare all’Aviazione tutti i missili con gittata superiore ai 300 km. Di più. Ordina che il terzo stadio dello Jupiter, il modello perfezionato del Redstone, già sulla rampa di lancio a Cape Canaveral, sia riempito di zavorra. Il progetto Vanguard può partire. Ma senza fretta…
Il 4 ottobre 1957, da una base “segreta” del Kazakistan, presso la località di Tyura-Tam situata a circa 350 km da Baikonur (i sovietici decidono che il centro di lancio debba essere chiamato pubblicamente con il nome della lontana cittadina per “depistare gli agenti dello spionaggio occidentale”. È come se l’aeroporto della Malpensa fosse chiamato Firenze) viene lanciato lo Sputnik (compagno di viaggio), il primo satellite artificiale.

La sua traiettoria orbitale è di 65°, tale da sorvolare l’intera terra abitata: una sfera di 58 cm di diametro contenente unicamente una radio trasmittente e batterie che si esauriranno in tre settimane. Eppure quel bip-bip, captabile anche dai radioamatori, susciterà in tutto il mondo sentimenti di stupore ammirazione curiosità apprensione e panico.
Il giorno dopo la Pravda riporta la notizia in un trafiletto di una ventina di righe. Non vi è né stupore né esaltazione: va da sé che la scienza e la tecnologia sovietica sono all’avanguardia nel mondo. Al contrario in Occidente la notizia rimbalza su tutti i mezzi di comunicazione. Il New York Times stravolge la sua tradizionale grafica per mettere tre enormi righe sotto la testata. La radio e la neonata televisione non parlano d’altro. Tutto passa in secondo piano, persino l’epidemia di influenza “asiatica” che pure sta facendo strage di anziani.
Alla fine se ne accorgono anche i media sovietici. Il titolo successivo della Pravda recita: “Creato dall’Unione Sovietica il primo satellite artificiale della Terra”. L’articolo riporta principalmente le congratulazioni ricevute dagli americani e le coordinate per osservare lo Sputnik dalle principali città del mondo. Nei giorni seguenti continua con l’elenco delle reazioni e delle congratulazioni di amici (Pechino, Varsavia, ecc.) e nemici (Roma, Parigi, Londra e Washington) sotto il titolo “La Russia ha vinto la gara”. L’Izvestia, il giornale del Pcus, afferma che l’Urss ha “sorpassato nella competizione pacifica, scientifica e tecnologica il più ricco e altamente sviluppato paese capitalista, gli Stati Uniti”.
Dopo lo Sputnik il mondo non sarà più lo stesso. Il successo di questa impresa è stato assicurato da un missile balistico intercontinentale riadattato e questo basta per dare per scontata la superiorità militare dei sovietici. L’angoscia occidentale per la minaccia strategica, coperta dal più rigoroso segreto, che ne ampia la portata, la sensazione collettiva di essere in balia di potenti missili e il timore di attacchi nucleari diretti (negli Usa andranno a ruba i rifugi antiatomici privati) condurranno a quell’affascinante e, per certi versi, assurdo capitolo della nostra storia recente che va sotto il nome di “corsa allo spazio”.

Lyndon Johnson, leader dei Democratici al Senato e futuro Presidente, la prende alla larga: “L’Impero romano controllava il mondo perché costruiva le strade. L’Impero britannico era dominante perché aveva le navi. Noi siamo forti perché abbiamo i bombardieri. Ora i comunisti hanno stabilito una testa di ponte nello spazio esterno. E non è affatto rassicurante sapere che l’anno prossimo potrebbero inviare un satellite migliore capace di sganciarci bombe atomiche come sassi da un cavalcavia”. Nel coro di questo panico si inserisce pure il Vaticano (Pio XII), che con l’Osservatore Romano il 9 ottobre avverte: “Lo Sputnik è uno spaventoso giocattolo nelle mani di bambinoni privi di religione e morale”.

Eccitato dal “furore globale” e, soprattutto dallo smacco inflitto agli americani, Kruscëv chiede che, per commemorare l’imminente quarantennale della Rivoluzione Bolscevica, venga lanciato un nuovo satellite con qualcosa di sensazionale: il 3 novembre 1957 viene messo in orbita lo Sputnik-2 che porta nello spazio il primo essere vivente della storia, la cagnetta Laika. La grande impressione che provocherà sull’opinione pubblica occidentale, e statunitense in particolare, non è dovuta tanto alla bestiola quanto al peso del satellite: 508 kg contro gli 83 del predecessore. Ciò fa supporre che l’Unione Sovietica in un mese abbia potuto costruire un razzo sei volte più potente! In realtà anche questa volta viene impiegato lo stesso vettore R-7 Semyorka usando tuttavia lo stratagemma di chiamare Sputnik anche il secondo stadio. Il lancio è imposto dai politici contro la riluttanza degli scienziati: basti pensare che per Laika era prevista una sopravvivenza di dieci giorni, mentre, lo si saprà trent’anni dopo, morirà poche ore dopo il lancio per un guasto dell’apparato termico.
Incalzati da questi successi gli Usa accelereranno il programma del Vanguard della Marina: il 6 dicembre 1957, in diretta televisiva, il razzo si solleva dalla rampa di lancio di due metri per poi esplodere. I giornali americani coniano termini amari come Flopnik, Kaputnik, Stayputnik. La frustrazione dell’Amministrazione Eisenhower sarà tale che deciderà di affidarsi allo Jupiter di von Braun lasciato volutamente in panchina. Il 31 gennaio 1958 il primo satellite americano, l’Explorer sarà in orbita e, a dispetto del peso modesto, 13,5 kg, contiene parecchi strumenti scientifici che permetteranno di fare una delle più importanti scoperte dell’Anno Geofisico Internazionale: le fasce di Van Allen.
Il 5 febbraio 1958 l’annunciata missione Vanguard fallisce nuovamente. Finalmente il 17 marzo mette in orbita il proprio satellite, destinato a rimanere in orbita per 300 anni. Pesante 1,5 kg è anche il primo a essere equipaggiato con celle fotovoltaiche. Nel forte spirito di rivalità interna von Braun dopo solo nove giorni riesce a lanciare l’Explorer-2.
Questi successi statunitensi fanno perdere le staffe a Kruscëv e, in uno dei suoi irritati discorsi, definendo “arance” i satelliti americani, “ordina” ai propri scienziati di realizzare qualcosa di eccezionale: e il 15 maggio 1958 entra in orbita lo Sputnik-3. Un vero laboratorio scientifico del peso di 1327 kg che porta a bordo 12 strumenti per raccogliere dati sulla composizione dell’alta atmosfera, la pressione, la presenza di particelle cariche, i fotoni, i nuclei pesanti nei raggi cosmici, i campi magnetici, ecc. Questo satellite era destinato ad essere il primo della storia ma, non essendo ancora perfezionato, nella fretta di battere gli americani fu deciso di sostituirlo con il ben più semplice Sputnik-1.

Ma chi è il deus ex machina del programma spaziale sovietico? Sergej Pavlovich Korolëv, la cui identità viene tenuta rigorosamente segreta fino alla sua morte avvenuta nel gennaio 1966. Al “Progettista-Capo” non verrà mai concesso né di recarsi all’estero né di incontrare o corrispondere con scienziati stranieri. Kruscëv lo terrà sempre lontano dai riflettori sostenendo che i successi astronautici sono merito “dell’intero popolo sovietico”. “Il velo del segreto lo oppresse per tutta la vita” ricorda la figlia Natalia nel suo libro.
Sarà lui a suggerire a Kruscëv, che si esalta all’idea di poter “sorpassare l’America”, l’ambizioso progetto di lanciare il primo satellite artificiale. Korolëv sa che dovrà scontrarsi con indifferenza e ostilità. Molti scienziati della potentissima Accademia delle Scienze sono scettici sull’utilità di andare nello spazio e i militari temono che l’astronautica possa ostacolare le ricerche missilistiche a fini bellici. Solo nell’estate del ’57, dopo lunghi dibattiti, il Comitato Centrale del Pcus gli concederà il benestare.
Se lo Sputnik non avesse scatenato quell’inattesa reazione di entusiasmo e timore globali il placet del Partito si sarebbe limitato a quell’unico evento. I milioni di cittadini del blocco sovietico sentirono il petto gonfiarsi di gioia: nel crepuscolo del terrore staliniano e nelle ristrettezze del dopoguerra vedevano in quella luna artificiale che solcava il cielo d’ottobre una grande rivincita. C’era anche, forte, lo sberleffo agli invidiati nemici americani: il loro satellite passava sopra le loro ricchissime e luminosissime città.
Altri milioni di persone gonfiarono il petto quell’autunno del ’57: i comunisti dei paesi occidentali e soprattutto europei. Sentivano di avere scelto la parte giusta, la dimostrazione che il possesso comune dei mezzi di produzione, il socialismo sovietico, avrebbe rappresentato la tappa ulteriore nell’evoluzione lineare dell’umanità. Una profezia che si basava sull’equazione: più socialismo, più scienza, più progresso, più pace fra i popoli, mentre il capitalismo in crisi perdeva colpi. Questa euforia preoccupa i politici americani anche per i riflessi sui paesi che si stanno liberando dalla tutela coloniale e che sembrano più propensi a schierarsi con l’Unione Sovietica che con il blocco occidentale. Radio Cairo arriva a dichiarare che “l’era spaziale suona le campane a morto per l’imperialismo, la politica americana di assedio all’Unione Sovietica è pienamente fallita”. La scienza e la tecnologia sono diventate lo strumento principale della propaganda ideologica alla quale gli Usa si contrapporranno, come vedremo, con il loro usuale pragmatismo.
Il 25 luglio 1958 Eisenhower prende due importanti decisioni. Prima: affidare a un ente civile tutte le future attività scientifiche spaziali: la NASA (National Aeronautics and Space Administration). Seconda: iniziare a progettare una capsula per il volo orbitale umano. E, naturalmente, selezionare e addestrare i futuri astronauti per quello che sarebbe stato il Progetto Mercury.
Il vecchio presidente, più accorto riguardo allo spazio che non su molte questioni terrestri, non aveva la minima intenzione di andare sulla Luna: questi grandiosi progetti non gli facevano né caldo né freddo. Non vedeva nemmeno perché ci si dovesse prendere una rivincita sullo Sputnik. Nel suo messaggio di fine mandato avrebbe voluto annunciare che dopo il Progetto Mercury non vi sarebbero stati più voli umani nello spazio di nessun genere.
L’anno 1959 è un trionfo per l’Unione Sovietica che si assicura una serie di nuovi primati. Il 2 gennaio il “Razzo cosmico”, così denominato nell’Urss, Luna-1 diventa il primo oggetto costruito dall’uomo a raggiungere la velocità di fuga dalla Terra (11,2 km al secondo). Fallisce l’obiettivo di impatto sulla Luna ma la sfiora a meno di 6.000 km, scoprendo che non è dotata di campo magnetico. Prosegue poi il suo volo diventando il primo oggetto terrestre in orbita solare, tra la Terra e Marte.
Il 14 settembre Luna-2 impatterà la Luna tra i crateri Archimede, Aristillo e Autolico: per la prima volta un manufatto umano ha preso contatto con un altro corpo celeste. Questo evento dimostra una grande capacità di precisione di lancio, della durata della propulsione e, soprattutto, della possibilità di localizzare la sonda e correggerne la direzione. Un mese dopo, il 7 ottobre, Luna-3 riesce a fotografare ed inviare a Terra ciò che l’uomo non aveva mai visto: la faccia nascosta della Luna. Le 29 foto mettono in evidenza un emisfero completamente diverso da quello noto, ovvero costituito da valli, montagne e crateri molto più piccoli e fitti: totale assenza dei mari di lava, le macchie scure che conosciamo. Differenza questa cui a tutt’oggi non è stata data una spiegazione soddisfacente.
Al contrario, il 1960 è per i sovietici un anno da dimenticare. La prima navicella Vostok, veicolo destinato a portare in orbita un cosmonauta, con a bordo un manichino, per problemi di cattiva accensione dei retrorazzi, anziché rientrare nell’atmosfera entra in un’orbita più alta dove vi rimarrà per 5 anni. Il 28 luglio le cagnette Chaika e Lisichka, passeggere della seconda Vostok, faranno una brutta fine: il fallimento della missione, mai ammesso ufficialmente, verrà coperto dal più stretto riserbo. Stessa sorte toccherà a Pchelka e Mushka: a causa di un malfunzionamento dei retrorazzi la capsula compie un giro e mezzo in più. I due cagnolini muoiono e il veicolo non verrà mai recuperato. Alcuni dicono sia finito in fondo all’oceano, altri sostengono sia stato distrutto da cariche esplosive azionate da terra onde evitare che cadesse in mani “nemiche”. Un po’ più fortunate saranno Sciutka e Kometa: per un difetto del terzo stadio la capsula non entra in orbita e cade in una remota e inaccessibile regione della Siberia dove verrà recuperata 60 ore dopo, alla temperatura di 40° sotto zero. Le due cagnette sono semicongelate ma vive.
Ma il peggio accade a Baykonur il 24 ottobre quando avviene quella che è ricordata come la Catastrofe di Nedelin, il più grave incidente della storia missilistica. Numerose personalità, militari e politiche, sono presenti per assistere al lancio del missile strategico R-16, destinato a sostituire il “vecchio” R-7 di Korolëv. È alimentato con propellente ipergolico a base di acido nitrico e idrazina, combustibile altamente tossico e pericoloso. Il giorno prima, il missile aveva cominciato a perdere acido nitrico. Ma il maresciallo Matrofan Nedelin, comandante supremo delle forze missilistiche sovietiche, volendo evitare figuracce di fronte alle autorità rifiuta qualsiasi ipotesi di rinvio e ordina di ripararlo durante la notte senza svuotarlo del combustibile. Mezz’ora prima del lancio accade l’irreparabile: i motori dell’ultimo stadio si accendono all’improvviso investendo di fiamme lo stadio inferiore il quale esplode. Più di 200 vittime. Nedelin sarà riconosciuto solo per le medaglie che portava sul petto. Dell’intera faccenda si saprà solo nel 1989.
Piccolo passo avanti degli Usa: il 31 gennaio 1961 il Redstone fa compiere un volo suborbitale alla capsula Mercury con a bordo lo “scimponauta” Ham. A suo tempo il presidente Eisenhower aveva dichiarato che “il primo americano ad andare nello spazio non sarà di certo una scimmia!”A causa di piccoli errori di lancio la capsula vola più in alto del programmato sottoponendo la bestiola, che comunque verrà recuperata incolume, ad una accelerazione durante il rientro di 16 G.
La risposta dei sovietici non si fa attendere. Il 12 aprile del 1961 la notizia fa il giro del mondo sulla prima pagina di tutti i giornali: il cosmonauta Jurij Alexeyevich Gagarin ha effettuato un viaggio orbitale intorno alla Terra a bordo della navicella Vostok. In 108 minuti la capsula compie un intero giro intorno al pianeta raggiungendo i 28.000 km l’ora, velocità che nessun essere umano aveva mai raggiunto prima e sperimentato per la prima volta l’assenza di gravità. A differenza di quanto avvenuto con lo Sputnik, il primo volo umano nello spazio è per gli Stati Uniti una profonda umiliazione ma non una grande sorpresa: prontamente arrivano a Kruscëv le congratulazioni ufficiali di Kennedy e von Braun che ammettono la sconfitta.

Perché Gagarin e non il suo pilota di riserva Titov giudicato da Korolëv più preparato? Per il raggiungimento degli scopi di propaganda tutti i candidati devono avere un “chiaro” rapporto nei confronti del partito ed avere un passato adamantino ma, soprattutto, per Kruscëv il primo cosmonauta deve provenire da una famiglia di operai e contadini mentre Titov è figlio di un professore, cioè di un “intellettuale”. Presentando Gagarin sulla Piazza Rossa Kruscëv dichiarerà: “Avete visto di che cosa è capace l’Unione Sovietica dalle scarpe di paglia?” (le tipiche calzature dei contadini russi poveri).
Appena eletto, Kennedy deve subito affrontare il problema di come ridare alla nazione il prestigio perduto, dopo il clamoroso fiasco della CIA a Cuba (mancata insurrezione contro Fidel Castro) e lo shock d’immagine causato dalla missione di Gagarin. Il 20 aprile 1961 indirizza al suo vicepresidente Lyndon Johnson la domanda: “C’è qualche possibilità di battere i sovietici mettendo un laboratorio nello spazio, o con un viaggio intorno alla Luna, o facendo atterrare un missile sulla Luna? C’è qualche altro programma spaziale che prometta risultati spettacolari in cui noi potremmo vincere?”. Viene convocato un gruppo di esperti in cui von Braun dà un contributo importante. Il 29 aprile scrive a Johnson: “Una stazione spaziale richiederebbe razzi di grande potenza: nel confronto con i russi saremmo perdenti per almeno 5 anni, ma abbiamo eccellenti possibilità di batterli facendo sbarcare prima di loro un uomo sulla Luna”.
Il 5 maggio 1961 Alan Shepard sale in cima al Redstone di von Braun, ed entra nella capsula Mercury, patriotticamente battezzata Freedom 7, per richiamare i sette astronauti selezionati dalla Nasa nell’affiatato “Primo Gruppo”. Il conto alla rovescia va avanti con estrema lentezza e ogni tanto viene interrotto per i motivi più banali: nessuno si vuole prendere la responsabilità di mettere a rischio l’incolumità dell’astronauta. I minuti diventano ore finché Shepard sbotta impaziente: “Possibile che io sia l’unico con i nervi saldi? Ragazzi, perché non vi date una mossa e date fuoco a ‘sta candela?”. Nel suo volo suborbitale raggiungerà i 186 km di altezza, e diventa il secondo astronauta della storia, avendo superato il 100 km che, secondo le regole della IAF (International Astronautical Federation), segnano il confine tra cielo e spazio. Durante il rientro raggiungerà il picco di 11,6 G.
Il “salto spaziale” di 15 minuti è un’impresa assai modesta. Eppure, trasmesso in diretta TV e seguito da milioni di spettatori, a differenza del volo di Gagarin di cui si è sentito parlare a posteriori solo per radio o letto sui giornali, ha l’effetto di galvanizzare il popolo americano e ridargli fiducia.

Venti giorni dopo, il 25 maggio 1961, Kennedy pronuncerà al Congresso il memorabile discorso in cui delinea le misure che gli Stati Uniti dovranno adottare per contrastare la sfida che viene dall’Unione Sovietica:
Credo che questa Nazione debba impegnarsi per raggiungere l’obiettivo, prima della fine di questo decennio, di far sbarcare un uomo sulla Luna e di farlo tornare sano e salvo sulla Terra. Non ci sarà progetto spaziale in grado di galvanizzare maggiormente l’attenzione di tutta l’umanità. Abbiamo deciso di andare sulla Luna non perché sia facile ma perché è difficile. Perché è una sfida che abbiamo intenzione di vincere.
Inutile dire che gli scienziati “puri” erano contrari a quest’impresa, primo fra tutti Jerome Wiesner, il consigliere scientifico del Presidente: “se vogliamo sapere qualcosa di più del nostro satellite mandiamo una sonda automatica, raccogliamo qualche sasso e riportiamola a terra. Non ci costerà di certo 10 miliardi di dollari” (in realtà, come già detto, alla fine i miliardi saranno 32).
Il discorso di Kennedy imprimerà una forte accelerazione ai programmi spaziali di entrambe le Nazioni le quali ora più di prima andranno alla ricerca disperata di “primati”. Senza badare né a spese né a rischi.
Il 6 agosto da Baykonur viene lanciato in orbita Gherman Titov a bordo della Vostok-2. Benché i medici insistano per limitare la missione a sole tre orbite per il timore degli effetti fisiologici di un volo di lunga durata, Korolëv insiste per una prova di 24 ore che permetterà di fare nuove esperienze come mangiare, collaudare la “toelette spaziale” e dormire. Il timore dei medici è che non sia possibile un risveglio a gravità zero. Alla fine vince Korolëv, anche perché, se si vuole atterrare nel luogo di partenza bisogna compiere 17 orbite. Il lancio va bene. Titov si gode lo spettacolo, mangia e fotografa la Terra…fino alla quinta orbita quando sarà colto dal “mal di spazio”. Alla settima si addormenta. Cercano di svegliarlo alla tredicesima ma non risponde subito facendo temere il peggio. Alla fine il cosmonauta si riprende e atterra nella regione dove era atterrato Gagarin.
Il programma Mercury, che fino ad allora non aveva prospettive ben definite, diventerà la prima fase della corsa verso la Luna. Inizialmente la Nasa era intenzionata a far fare a tutti i sette astronauti un primo volo suborbitale. Ma dopo la missione di un’intera giornata di Titov il progetto non avrebbe più senso. Gli Usa devono correre per accorciare la distanza che li separa dai sovietici. Il 20 febbraio 1962 John Glen sale sulla rampa di lancio, non dell’inadeguato Redstone ma dell’Atlas dell’Aviazione che tuttavia è ancora in fase sperimentale: l’astronauta ne è informato ed è consapevole del rischio che corre. Il lancio riesce perfettamente e sono pianificate tre orbite. Alla seconda tuttavia una spia si accende segnalando che lo scudo termico non si trova più nella posizione corretta: c’è il timore che si stacchi e che la capsula si vaporizzi al rientro in atmosfera. Il centro di controllo decide allora di non liberarsi dei razzi frenanti per tenere legato lo scudo. Nonostante tutti, compreso il pilota, stiano con il fiato sospeso il volo termina felicemente a soli 60 km dal punto prestabilito. Si scoprirà poi che i problemi non erano legati allo scudo termico ma al malfunzionamento della telemetria, alimentando qualche malumore tra gli astronauti e il direttore di volo.
Il dibattito su quale sia il metodo migliore per andare sulla Luna entra nel vivo. La prima ipotesi che viene presa in considerazione è l’ascesa diretta: un potente razzo Nova, alto più di 200 metri porterà l’ultimo stadio direttamente sulla Luna. Ma l’intera tecnologia va ancora pensata e sviluppata. L’equipe di von Braun propende per costruire la navicella con successivi rendez-vous in orbita terrestre, che richiederebbe lanciatori molto meno potenti ma i calcoli dimostrano che ne occorrerebbero almeno quindici e sembrano troppi. C’era pure il progetto di un missile con l’ultimo stadio a propellente nucleare. Fu avanzata persino la raggelante proposta di far scendere l’uomo sulla Luna senza i mezzi per ripartirne: il veicolo, automatico, per il ritorno doveva essere inviato sul satellite successivamente.
Inaspettatamente un giovane ingegnere, John Houbolt propone una terza soluzione basata sul rendez-vous in orbita lunare, già immaginata nel 1927 dal russo Kondratjuk. Questa prevede l’assemblaggio di più elementi leggeri in grado di soddisfare le varie necessità della missione nelle sue diverse fasi. Inizialmente il progetto sembra essere un po’ folle (era già un problema il rendez-vous in orbita terrestre, figuriamoci in quella lunare) ma è realizzabile in tempi brevi, utilizzando le tecnologie già disponibili: basta un Saturno potenziato, già in fase di sviluppo, con l’aggiunta di un piccolo modulo lunare. Von Braun è in disaccordo con questo progetto e insiste che il suo Saturno-5 (già alto di suo quasi cento metri) vada visto solo come lo stadio intermedio del gigantesco razzo che ha in mente. Ma, nonostante il suo carisma, la Nasa, il 7 giugno 1962, decide per la soluzione Houbolt.
Il modello sovietico prevede il lancio di due veicoli. Un gigantesco razzo, l’N-1, porterà in orbita terrestre il terzo stadio, con il modulo lunare e senza uomini a bordo. Sarà raggiunto da una navicella Soyuz con due uomini a bordo che partiranno alla volta della Luna. Una volta raggiunta l’orbita circumlunare un cosmonauta entrerà nel modulo lunare e scenderà, da solo, sulla superficie della Luna. Pianterà la bandiera, raccoglierà qualche campione e risalirà al modulo in attesa.
Per gli Usa la scelta, e costruzione, del veicolo è solo una parte della missione. I problemi da risolvere sono molteplici: la mobilitazione di migliaia di persone; gli astronauti dovranno accumulare migliaia di ore di volo, reali e simulate; tecnologie e materiali che ancora non esistono; l’attività extraveicolare; le tute spaziali; i rendez-vous; l’agganciamento tra due capsule; i voli di lunga durata (come reagirà l’organismo a due settimane di assenza di gravità?); l’addestramento di molti astronauti, ecc. Per risolvere questi problemi, tra i programmi Mercury e Apollo si inserisce il Gemini: capsula a due posti portata in orbita da un missile Titan dell’Aviazione.
La corsa ai primati continua. L’11 agosto 62 viene lanciata la Vostok-3 con a bordo Nikolaev, destinato a percorrere 64 orbite in 4 giorni. 24 ore più tardi viene lanciato Vostok-4 con a bordo Popovič che compirà un volo “accoppiato”. Di più: possono muoversi liberamente nell’abitacolo, diventando i primi esseri umani a volare a causa dell’assenza di gravità. Ma il volo più propagandistico sarà quello del 13 giugno ’63 in cui andrà in orbita Valentina Tereskova, la prima donna dello spazio.
Come sempre, vent’anni dopo si verrà a sapere che per la povera donna fu un calvario. La navicella è minuscola, lei rimane legata al suo sedile con tuta e casco per tutte le 71 ore del viaggio. L’assenza di peso la fa star male e comincia a soffrire il “mal di spazio” con vertigini, nausee e vomito, senza alcuna possibilità di ripulirsi. Il secondo giorno inizia a farle male la gamba destra, al terzo il dolore diventa insopportabile. Il casco le preme sulla spalla, un rilevatore sulla testa le causa un continuo prurito. Al rientro, nell’impatto a terra sbatte la faccia contro il casco: è dolorante, sporca e semisvenuta e viene portata subito in ospedale. Ma per ragioni di propaganda il suo rientro dovrà essere trionfale. Così, appena si riprende, è riportata nella stessa zona con una tuta immacolata e pronta a esibire il suo miglior sorriso per le cineprese.
Avviato il progetto Gemini americano, Kruscëv convoca Korolëv e gli ordina di far volare non due ma tre cosmonauti per celebrare l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre: “Se gli americani hanno un veicolo per due, noi dimostreremo la nostra superiorità facendo volare tre uomini”. Appare subito chiaro che nemmeno scegliendo gli uomini più minuti si possono stipare tre persone a bordo dalla Vostok, ora ribattezzata Voskhod per simulare il battesimo di una nuova navicella. Che fare? Semplice! I tre cosmonauti viaggeranno senza scafandro! Ed è con giacchette leggere che i nostri il 12 ottobre 1964 armeggiano per pigiarsi nella sfera e, per la prima volta, richiudono il portellone ermeticamente dall’interno. Per dare un valore aggiunto all’impresa l’equipaggio sarà costituito da tre specialisti: pilota, ingegnere e medico, un autentico equipaggio, anche se, data l’impossibilità di manovra, nessuno dei tre potrà esercitare il proprio mestiere. Poco tempo dopo, per ragioni politiche, Kruscëv verrà detronizzato dal Comitato Centrale del Pcus e di conseguenza il programma spaziale sovietico perderà il suo sponsor principale. Il suo successore, Brežnev, non è particolarmente entusiasta per la spettacolarizzazione delle imprese spaziali.
Il 18 marzo 1965 sarà dato il via per l’ultima missione per precedere gli americani: il volo della Voshkod-2, con la prima passeggiata nello spazio. Si sfiorerà la tragedia: dopo 12 minuti di permanenza nel vuoto, la tuta di Alexei Leonov si gonfia come un pallone, rendendogli difficoltosi i movimenti. Il cosmonauta non riesce a rientrare nella capsula attraverso lo stretto portello della camera stagna. Dopo molti tentativi è stremato: la temperatura corporea è salita di 2°. Alla fine ricorre allo stratagemma di ridurre la pressione della tuta, aprendo la valvola che scarica l’aria, con rischio di malore da decompressione ed embolia. Questa sarà l’ultima missione diretta da Korolëv (morirà per un tragico errore chirurgico nel gennaio 1966) e l’ultimo prestigioso primato conseguito: dopo il volo di Voshkod-2, infatti, i sovietici – inaspettatamente – sospendono tutte le attività spaziali umane.
Visto dall’esterno, il sistema sovietico sembra monolitico ed efficiente. In verità non esiste un vero e proprio ente spaziale né un programma spaziale specifico. Aggiungiamo rivalità interne, ripicche personali e complotti politici. Fioriscono i progetti rivali e paralleli e le duplicazioni di sforzi, aggravati dalla tipica segretezza. Significativo è l’esempio che porta Mišin, il successore di Korolëv, in una intervista del 1990, parlando del progetto N-1 (il gigantesco razzo concorrente del Saturno-5): “Nella produzione delle parti dell’N-1 erano coinvolti 500 uffici diversi in 28 diversi compartimenti governativi. Non esisteva un’autorità riconosciuta in grado di imporre cooperazione fra le varie strutture. A questo si aggiungeva il fatto che – in perfetto stile sovietico – nessuno voleva essere il portatore di cattive notizie al capo di turno. Così quando un sistema non funzionava, spesso si preferiva ignorare i problemi e fingere che andasse tutto bene”.
Nonostante ciò i sovietici si aggiudicheranno nuovi primati. Il 3 febbraio 1966, Luna-9, una delle ultime creazioni del Progettista-Capo, effettua il primo atterraggio morbido sulla Luna (nel sito che, da allora, verrà denominato sulle mappe lunari Planitia Descensus) e dopo soli 5 minuti inizia a trasmettere le prime immagini che arrivano da un altro corpo celeste. Il 3 aprile Luna-10 diventa il primo satellite artificiale della Luna e compie numerose ricerche sui campi gravitazionali. I sovietici seguono le notizie che arrivano dall’America. Il razzo N-1 dà ancora molti problemi, ma non si danno per vinti. Per salvare l’orgoglio nazionale il 15 settembre 1968 giocano d’azzardo mettendo in pista Zond-5, con un equipaggio di tartarughe, moscerini, vermicelli, batteri, semi, nonché un manichino alto 175 cm munito di rilevatori di radiazioni. Un nuovo primato: il primo veicolo spaziale a circumnavigare la Luna e tornare a Terra.
Procedendo con metodo, la Nasa imprime al programma Gemini un ritmo che le permette di lanciare in meno di venti mesi 10 navicelle di nuova generazione, con due uomini a bordo, affrontando ad ogni volo compiti progressivamente più complessi anche se alcuni presentarono problematiche impreviste ed anche parziali insuccessi come la Gemini-4 dove Edward White nel corso della prima attività extraveicolare perse l’orientamento e fu con grande fatica “tirato” nella capsula dal suo compagno James McDivitt. Oppure con la Gemini-8 pilotata da Neil Armstrong e Dave Scott: la missione parte il 16 marzo 1966 e dopo solo 5 orbite raggiunge il missile Agena, lanciato il giorno stesso. La manovra di avvicinamento e aggancio riesce perfettamente: un altro primato è raggiunto. Ma l’euforia dura poco. Un propulsore sfuggito al controllo inizia a far ruotare su sé stessi i veicoli e quindi i piloti decidono di sganciarli con il risultato che la navicella accelera ulteriormente la rotazione. Non resta loro che passare ai comandi manuali e interrompere la missione.
Purtroppo, per velocizzare il più possibile la preparazione degli astronauti la Nasa decide che questi debbano spostarsi da un centro di addestramento all’altro con dei jet militari pilotati da loro stessi e con qualsiasi tempo. Così il 31 ottobre del 1964 Theodore Freeman rimane ucciso in fase di decollo dalla base aerea di Ellington presso Houston. Ma l’incidente che fece più scalpore, tanto da mettere in forse l’intera gara spaziale, sarà quello occorso ai previsti membri della Gemini-9, Elliot See e Charles Bassett: il 28 febbraio 1966 volano su di un T38 biposto verso St. Louis per effettuare delle esercitazioni nel simulatore di volo presso la McDonnel Aircraft Corporation, costruttrice delle capsule. A causa della scarsa visibilità See tenta di rimandare l’atterraggio, sfiorando con tale manovra l’edificio della fabbrica. L’aereo precipita e i due piloti non fanno in tempo a catapultarsi.
Il progetto Apollo è sulla dirittura d’arrivo. A terra tutto è pronto per la fase finale: il gigantesco Saturno-5 di von Braun, il Modulo di Escursione Lunare, la capsula Apollo, il Modulo di comando, l’edificio di assemblaggio, la piattaforma di lancio.
Parallelamente si procede al lancio di una serie di congegni automatici per una migliore conoscenza del nostro satellite. In particolare, le 9 sonde Ranger: lanciate nel quadriennio 1961-65 con l’obiettivo di ottenere immagini di alta qualità della superficie lunare ed erano progettate per impattare con il suolo (la località dell’atterraggio della numero 7 verrà chiamata, molto pomposamente, Mare Cognitum). Le 5 Lunar Orbiter, lanciate nel biennio 1966-67 e orbitanti intorno alla Luna con il compito di eseguirne la mappatura, in particolare dei futuri siti di atterraggio dei Lem. I 7 Surveyor, 1966-68, sonde riproducenti in scala i Lem per appurare la fattibilità di un atterraggio morbido (c’era chi sosteneva, calcoli alla mano, che la superficie lunare fosse ricoperta da uno strato di polvere spesso dai due ai cinquanta metri, per cui le navicelle ne sarebbero state inghiottite).
Sono previste almeno una ventina di missioni che coinvolgeranno una sessantina di astronauti quando il 27 gennaio 1967 accade un terribile incidente che farà slittare il programma di 21 mesi. Virgin Grissom, Edward White e Roger Chaffee stanno conducendo un banale test di routine quando all’improvviso scoppia l’inferno: “Fuoco! c’è del fuoco nella cabina”, e 17 secondi dopo: “Stiamo bruciando”. La trasmissione si conclude con un grido di dolore.
La commissione d’inchiesta arriverà alla conclusione che il Modulo di comando non era sicuro per una serie di fattori: l’atmosfera al 100% di ossigeno e la sua pressione eccessiva; il portello poteva aprirsi dall’interno solo con la capsula non pressurizzata; l’esclusione di bulloni esplosivi per l’apertura di emergenza; la presenza di materiale altamente infiammabile (Velcro)… . La North American Aviation, produttrice della capsula aveva inizialmente segnalato questi rischi ma la Nasa li sottovalutò. Tuttavia si prese pragmaticamente la responsabilità dell’incidente: “se la colpa è nostra ci prenderemo una lavata di capo e tutto finisce qui; se la colpa è della Nasa l’intero progetto rischia di saltare!”.
Dopo 4 lanci sperimentali del Saturno-5 l’11 ottobre 1968 viene effettuata la prima missione con equipaggio di tre uomini del progetto Apollo, la numero 7: permanenza di 11 giorni in orbita terrestre bassa. Nel programma dell’Apollo-8 si sarebbe dovuto sperimentare in orbita terrestre lo sganciamento e il ricontatto del Lem. Tuttavia questo era ancora da mettere a punto (si trattava di una macchina estremamente complessa: due veicoli indipendenti e al contempo interconnessi) per cui viene deciso di anticipare la missione successiva: il 24 dicembre 1968 Frank Borman, James Lovel, William Anders saranno i primi uomini a uscire dalla gravità terrestre, entrare in orbita lunare, vedere con i propri occhi la faccia nascosta della Luna ed essere testimoni dallo spazio di un’alba terrestre. “Avete salvato il 68” sarà il messaggio inviato da una signora al loro rientro. Per gli Usa il 1968 fu un anno terribile: la contestazione studentesca, il Vietnam, l’assassinio di Martin Luther King e di Robert Kennedy.
L’Apollo-9 farà gli esperimenti programmati per Apollo-8. Con il numero 10 si terrà la prova generale dello sbarco sulla Luna, tristemente frustrante per gli astronauti che la attuarono: immissione in orbita lunare, distacco ed accensione del motore del Lem, discesa fino a 15 km dalla superficie lunare e riaggancio al modulo di comando.
Appena tre settimane prima della missione Apollo-11 i satelliti-spia rilevano che il secondo lancio di prova dell’N-1, gemello sovietico del Saturno-5, è clamorosamente fallito, provocando altresì la distruzione delle strutture della base di lancio. A questo punto alla Nasa c’è chi vorrebbe prendersela comoda ma i politici sono per procedere secondo programma.

Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità. La frase di Neil Armstrong, pronunciata alle 2,56 del 21 luglio 1969, concretizza il sogno di Kennedy di vedere un uomo sulla Luna prima della fine degli anni Sessanta. Tre piccoli crateri nel Mare della Tranquillità testimonieranno per sempre i nomi dei membri della missione numero 11, Armstrong, Aldrin e Collins. Per i 18 astronauti delle missioni successive, concluse il 19 dicembre 1972, con l’ammaraggio dell’Apollo-17, non ci sarà né cronaca né Storia.

Gli organi d’informazione sovietici cominceranno a bollare come indebita illazione la partecipazione dell’Urss alla “gara per la conquista della Luna”, sostenendo che il Cremlino non ha mai inteso sperperare il denaro necessario al benessere del proletariato per un’impresa che poteva essere condotta con molti meno rischi e con maggiore efficienza con una assai meno costosa sonda automatica. Solo il 18 agosto 1989, nel clima della glasnost di Gorbacëv, si riconoscerà di avere avuto, per lunghi anni, mire analoghe a quelle degli americani.
Mario Anesi