QUANDO IL RE CONSACRO’ L’ALTARE DELLA PATRIA – 4 novembre 1921

Quando il re consacro’ l’altare della Patria

Quel 4 novembre 1921 l’Italia mostrò di poter fare a meno dei fascisti, che però tre settimane dopo si costituirono in Partito e, alla fusione con i nazionalisti, divennero la sciagura d’Italia. 

Aldo A. Mola

Re Vittorio Emanuele III segue la bara del Milite Ignoto caricata su un affusto di cannone (4 novembre 1921)
Dalla Festa delle Bandiere alla Tumulazione dell’“Eroe Ignoto”

Il re e i presidenti del Consiglio (Giolitti prima, Bonomi poi) traghettarono l’opinione pubblica dalla Festa delle Bandiere (4 novembre 1920) alla tumulazione dell’“Ignoto Milite” (4 novembre 1921) quale suggello della unione nazionale. L’11 giugno 1921 Vittorio Emanuele III inaugurò la XXVI Legislatura salutando i rappresentanti delle “nuove terre”, “liberamente eletti dalle laboriose popolazioni di cui si accresce e si rafforza l’Italia” ed evocò Dante Alighieri nel sesto centenario della morte. Urgevano la restaurazione della finanza pubblica e il riordino dell’esercito e della marina, “strumento del diritto e della difesa della Patria”. “La rafforzata autorità dello Stato, affermò il sovrano, deve poggiare sul sentimento della disciplina dei cittadini. Il popolo italiano, che nella trincea bombardata e sulla nave minacciata ha appreso la vittoriosa virtù della disciplina, deve sentire oggi che questa virtù è indispensabile all’opera lenta ed oscura, ma non meno aspra e difficile, della ricostruzione.”

Il 20 giugno 1921 di concerto con il presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, ope legis perno dell’unità politica del governo, il ministro della Guerra Giulio Rodinò di Miglione (Napoli, 1875-Roma, 1946, deputato dal 1913, interventista, eletto nelle file del Partito popolare italiano, fondato da don Luigi Sturzo il 18 gennaio 1919: un centenario passato quasi sotto silenzio, a differenza di quello, molto enfatizzato, del parimenti defunto Partito comunista d’Italia), presentò il disegno di legge per la sepoltura di un soldato ignoto”. In stile tipicamente giolittiano, la brevissima Relazione di accompagnamento del disegno di legge andò subito in medias res: “Le salme dei militari morti in guerra – che complessivamente assommano a circa 560.000 – sono, per una metà quasi, di individui non riconosciuti. È una moltitudine anonima di prodi che non hanno lasciato alle famiglie, tuttora tormentate dai dubbi più angosciosi, il dolce e mesto conforto di poter custodire le loro gloriose spoglie. Sono legioni di umili eroi che la grande famiglia della Patria, alle cui fortune essi hanno fedelmente concorso col nobile sacrificio della vita, vuole rivendicare a sé, perché sono i suoi figli diletti, i suoi poveri figli sperduti. Vi proponiamo perciò che in Roma sia data solenne sepoltura, per opera dello Stato, alla salma non identificata di un soldato caduto in combattimento per la Patria”.

La “celebrazione dell’Eroe Ignoto” rispondeva “alla coscienza che un popolo civile, uscito vittorioso dalla guerra”, consapevole “non soltanto dalla forza acquistata ma anche dei propri doveri verso quanti trovarono nella guerra morte gloriosa”. Richiamò alla disciplina e al “senso dello Stato” evocato dal discorso della Corona. Il disegno di legge non indicò l’Altare della Patria quale destinazione della salma . Esso decadde come tutti quelli del governo in carica, di lì a poco dimissionario: l’istituzione del Consiglio Nazionale del Lavoro, la trasformazione del latifondo, la colonizzazione interna e “provvedimenti a sollievo della disoccupazione operaia”. Decaddero anche i due disegni di legge ai quali Giolitti più teneva: la riforma dell’amministrazione dello Stato, con la semplificazione dei servizi e la riduzione del personale, e il trasferimento dal re alle Camere del potere di dichiarare guerra, già proposto il 24 giugno1920.

Dopo le dimissioni Giolitti non tornò più sulla tumulazione dell’Eroe Ignoto. Dallo scranno di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo il 26 ottobre 1921 elencò le conseguenze politiche, economiche e finanziarie della guerra: svilimento della moneta, conseguente aumento del costo della vita, enorme disavanzo dei bilanci dello Stato, delle Province e dei Comuni. Senza rimedi immediati incombeva “il fallimento dello Stato, al quale seguirebbe inevitabilmente il fallimento degli istituti di credito, delle casse di risparmio e di gran parte delle nostre industrie, con terribili conseguenze specialmente per le classi lavoratrici”. Vinta la guerra il popolo italiano non voleva “vedersi ridotto in condizioni di umiliante inferiorità, in condizioni di popolo vinto”. Era dunque giusto onorare la salma Soldato Ignoto, simbolo del sacrificio del popolo, ma urgeva anche ripristinare la centralità del Parlamento e l’autorevolezza dello Stato.

Dieci ministri della Guerra in quattro anni

Bonomi, suo successore alla presidenza del Consiglio, dette impulso alla complessa “macchina” coronata il 28 ottobre-4 novembre 1921 con la Tumulazione all’Altare della Patria, ma non realizzò nessuno dei principali punti programmatici additati da Giolitti. Il quadro istituzionale non era confortante. Tre anni dopo ne scrisse Angelo Gatti in premessa a Tre anni di vita militare. Dopo Vittorio Zupelli, ministro della Guerra nel governo presieduto da Orlando, nel corso dei due ministeri Nitti si susseguirono cinque diversi titolari: tre militari (Enrico Caviglia, Giovanni Sechi, Alberico Albricci) e due civili (Ivanoe Bonomi, ex socialista riformista, interventista, democratico, e Giulio Rodinò, deputato del partito popolare italiano e interventista. Il V governo Giolitti ebbe alla Guerra Bonomi e Rodinò (2 aprile- 4 luglio 1921). A Luigi Gasparotto (la cui spposta affiliazione massonica non è affatto dimostrata), ministro nel governo Bonomi, nei due inconcludenti governi presieduti da Luigi Facta si susseguirono Pietro Lanza di Scalea e Marcello Soleri, giolittiano, deputato dal 1913, ufficiale degli alpini, ferito in guerra. Durante la formazione del secondo governo Nitti in un solo giorno si rincorsero i nomi di ben cinque ministri, “come se la Guerra fosse all’asta” scrisse Gatti. La sequenza di dieci diversi titolari di un dicastero così importante per la vita del Paese nel corso della smobilitazione e del riordino delle forze armate, mentre l’Europa rimaneva con l’arma al piede, ebbe un effetto desolante. Dov’era la Vittoria?

Nominato ministro della Guerra dopo Gasparotto (otto mesi durante quali “ministro, gabinetto, generali, ufficiali, sottufficiali, caporali e soldati, senza contare innumerevoli borghesi, discussero e legiferarono liberamente dell’Esercito”), Lanza di Scalea , “perfetto gentiluomo”, assunse la carica “con tre idee ben ferme e chiare, che ripeteva a tutti quelli che lo volevano o non lo volevano ascoltare”. La prima (annotò Gatti con amaro sarcasmo) era che egli non sapeva niente del Ministero che gli avevano affidato (aspirava a quello delle Colonie); la seconda che sarebbero occorsi almeno sei mesi perché imparasse qualche cosa delle faccende militari; ma – e questa era la sua terza idea – era sicuro che entro sei mesi non sarebbe stato più ministro. Perciò si limitò a richiamare alla disciplina, come avevano fatto il re e Giolitti: e già parve una svolta.

Nel frattempo si susseguirono studi, progetti e relazioni di accompagnamento di disegni di legge mai discussi o esaminati da un solo ramo del Parlamento e finiti nel nulla. Rilevante fu la Relazione esposta il 23 novembre 1921 dal ministro Gasparotto alla Commissione consultiva per l’ordinamento dell’esercito. Illustrò le ripercussioni della riduzione della “ferma” a otto mesi. Andava compensata con l’educazione fisica di tutta la gioventù (senza distinzione tra maschi e femmine) dalla puerizia ai 17 anni e con l’istruzione premilitare obbligatoria (che non fu affatto ideata dal fascismo, ma dai ministri dell’Istruzione Michele Coppino e Francesco De Sanctis, entrambi massoni, nel 1877-1878) per “favorire lo sviluppo del corpo ed indirettamente la formazione del carattere”, anche in vista dell’incremento di almeno 25/30.000 unità della forza bilanciata (fissata a 175.000 uomini) indispensabile nel quadro della instabilità politico-militare dell’Europa.

Riscossa o crepuscolo dell’Italia liberale?

Alle dimissioni (27 giugno 1921) Giolitti propose quale successore il giovane presidente della Camera Enrico De Nicola. Il re gli preferì Bonomi. Come suo costume lo statista piemontese rientrò in Piemonte lasciando che il tempo lavorasse per l’avvento di una coalizione comprendente i socialisti, alternativa al binomio Sturzo-Turati dal quale (dichiarò mesi dopo) non v’era da aspettarsi nulla di buono. In risposta don Sturzo pose il “veto” a un nuovo governo Giolitti esteso ai socialisti, il cui chiarimento interno, peraltro, tardò ancora quasi un anno e giunse fuori tempo massimo e con poca chiarezza per la perdurante lontananza fra l’anziano pacato Turati e l’irruente Giacomo Matteotti, irriducibilmente antigiolittiano e, peggio, anti-sistema: eventi questi successivi al 4 novembre 1921.

Bonomi impresse un’accelerazione ai preparativi della festa della Tumulazione. Nei giorni conclusivi, tra il 28 ottobre e il 4 novembre, protagonisti della Vittoria furono il Soldato Ignoto e il Re. Il 30 settembre Gasparotto diramò le disposizioni analitiche per la designazione della Salma, la sua traslazione a Roma, l’arrivo del convoglio nella capitale, il trasporto della bara dalla Stazione Termini alla chiesa di Santa Maria degli Angeli, il suo trasferimento all’Altare della Patria, presenti rappresentanze d’arma ed ex combattenti e i 335 vessilli militari ripartiti in bandiere (256), stendardi (30) e labari (49). Seguirono ulteriori istruzioni da parte del comandante della Divisione militare di Roma, Emanuele Pugliese, e l’annuncio formale del Comitato esecutivo per le onoranze al Soldato Ignoto con direttive per i sottocomitati comunali, chiamati a far partecipare col suono delle campane ogni lembo d’Italia alla tumulazione, tra le 11 e le 11:30 del 4 novembre, subito dopo la deposizione della bara ai piedi della Dea Roma sull’Altare della Patria: momento magico accompagnato dal rullo dei tamburi, reso più cupo dall’allentamento dei cordoni, siccome disposto personalmente da Vittorio Emanuele III, che volle fosse adottato il cerimoniale dei funerali della Casa, nella quale fu idealmente accolto l’Ignoto Milite.

Se mai ve ne fosse stato bisogno, la circolare del 30 settembre chiarì la centralità del re quale sommo sacerdote del rito. Nel trasporto dalla Sala allestita alla Stazione Termini alla Basilica la bara, su affusto di cannone e fiancheggiata da decorati di medaglia d’oro, fu preceduta dalla musica dei Reali Carabinieri, da bandiere, stendardi e labari, e dalla musica della Marina. Subito dietro la bara avanzò a piedi il re, seguito dalla Real Casa (la Regina Madre, Margherita di Savoia, la Regina Elena, il diciassettenne principe ereditario, Umberto, tutti i principi del sangue e le loro consorti), dalle alte cariche e dignità dello Stato e dalle rappresentanze previamente schierate all’interno della Stazione. L’Italia non era una ridda di fazioni ma Nazione. Dall’estero osservavano e capivano.

Il Re Soldato e la massima manifestazione patriottica d’Italia

Alle 9.30 del 4 novembre ad attendere la Salma all’altare della Patria e sui ripiani del monumento (regista il generale Francesco Saverio Grazioli, vincitore di Vittorio Veneto) fu il re, circondato dalla Real Casa, da ministri, sottosegretari, Collari e Collaresse della SS. Annunziata, ministri di Stato, corpo diplomatico e via proseguendo sino a rappresentanti del comitato per le onoranze al Soldato Ignoto. Ne fece parte anche Giulio Douhet, che due anni prima aveva contrapposto il Milite Ignoto ai “comandanti”, la fantomatica “nazione armata” allo Stato. All’opposto, la celebrazione esaltò l’armonica identità del re con la patria, come sottolinearono tutte le cronache della giornata: i due Poli dalla cui congiunzione scaturiva l’energia della nazione italiana.

Stonarono alcune dichiarazioni polemiche (in specie di Giacomo Matteotti) sommerse nel coro del milione di persone accorse a con-celebrare il rito memoriale, seguito, nel pomeriggio, dall’acclamazione al Quirinale, al cui balcone il sovrano si affacciò ripetutamente.

Ma il re “conosceva” il “soldato”? Lo aveva veduto nel vivo della guerra? A parte racconti che potrebbero sembrare agiografici, lo confermano testimonianze, sinora inedite, raccolte dal colonnello Angelo Gatti per una storia, mai scritta, dell’Italia nella grande guerra. Fra le molte, spiccano i ricordi dell’aiutante di campo, generale Ugo Brusati, e del generale Antonino Di Giorgio, futuro ministro della Guerra.

In un ampio ritratto Brusati dipinse il sovrano quale “uomo di grande intelligenza e di grande cultura”, ma “molto modesto”, “rigorosamente costituzionale, uomo che vuole essere re di tutti gli italiani, non di un solo partito”. Riservato per temperamento e convinzione, “andava per le trincee di prima linea senza mai farsi conoscere. Mai parlava alle truppe, mai faceva grandi gesti. Intelligenza militare aveva anche, specialmente per quel che riguarda il terreno. Ascoltava e sapeva tutto ciò che avveniva in guerra. Di coraggio personale sopra ogni dubbio, arrivava lui dove non arrivavano ufficiali del Comando Supremo. Molte volte giungeva alla distanza di poche decine di metri dai nemici, in trincea. Ci sono fotografie del re che lo sorprendono mentre monta su un albero, per assistere all’uscita di truppe nostre per un attacco”.

Secondo Di Giorgio il re era “di molta intelligenza, di molta cultura, di molta memoria, uomo probo. Di politica non parlava mai “se non con pochissimi”. “Dopo aver fatto il soldato come nessuno lo aveva fatto, dopo avere, unico fra i generali, mangiato sempre su una tavola con un pezzo di tela cerata o sui prati, dopo aver percorso ogni giorno centinaia di chilometri in automobile, ed essersi esposto ogni giorno con grande coraggio alla morte, nessuno  gliene rese merito”. Un giorno Di Giorgiò lo implorò di farsi salutare dai suoi soldati. Dopo una prima esitazione Vittorio Emanuele rispose seccamente: “Ebbene, facciamo vedere loro il re” e “cominciò a tamburinare nervosamente con la mano sullo sportello dell’automobile. I minuti passavano come ore”. I soldati della brigata Bisagno accorsero gridando “Evviva il Re. Chi gli pigliava le mani, chi voleva avvicinarsi. Il re fu commosso; ebbe gli occhi lucidi; si voltò gli strinse la mano e gli disse Grazie Di Giorgio. Dopo e durante la guerra l’azione del re fu così, tutta in grigio, tanto che se alla fine la monarchia non subì nessun colpo, fu proprio perché il principio è realmente vitale”.

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L’Altare della Patria ospita al suo interno la Tomba del Milite Ignoto, uno degli elementi fondativi dell’identità nazionale italiana. La tomba fu realizzata in obbedienza a una legge del 1921, che intendeva commemorare con un singolo caduto, non identificato, tutti i soldati morti nella Prima Guerra Mondiale.

 

L’individuazione della Salma dell’Ignoto Milite, la sua traslazione e la tumulazione all’Altare della Patria il 4 novembre 1921 posero al centro della vita pubblica il Re e i vertici delle forze armate a soli due anni dalla canea antimonarchica e antimilitarista del 1919. Il profondo mutamento del “clima” fu anche opera di Giolitti. Come Luigi Cadorna e Armando Diaz (impegnato negli Stati Uniti), lo statista fu uno dei “grandi assenti” alla solenne cerimonia iniziata ad Aquileia il 28 ottobre e conclusa a Roma. La svolta nacque dal bisogno profondo di pace sociale, di ricostruzione economica e di orgoglio per la sofferta prova nella grande guerra. Però nel volgere di pochi mesi essa svaporò. Le dimissioni di Bonomi aprirono la crisi di governo più lunga dal 1861, terminata con l’avvento del primo dei due governi presieduti da Luigi Facta, inetto e spazzato via con la formazione del governo di convergenza costituzionale presieduto da Benito Mussolini, insediato il 31 ottobre 1922 senza bisogno di stato d’assedio né di “marcia su Roma”, salutato da una “sfilata” da Piazza del Popolo all’Altare della Patria, dal Quirinale alla Stazione Termini, ove tutto si concluse.

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La prima terrazza accoglie l’Altare della Patria, una grande ara votiva dedicata alla nazione italiana. Progettato dallo stesso architetto del Vittoriano, Giuseppe Sacconi, l’Altare fu eseguito dallo scultore lombardo Angelo Zanelli.

Sulla traccia della liturgia del 2-4 novembre 1921 sorse poi in ogni comune d’Italia la miriade di monumenti e lapidi con i nomi dei caduti. Per impulso e con la regia di Dario Lupi, massone e sottosegretario al ministero della Pubblica istruzione nel governo Mussolini, sorsero poi i “parchi delle rimembranze”. L’“Italia di Vittorio Veneto” non era monopolio di una fazione ideologica o partitica ma patrimonio del “popolo”, suggello dell’unione del Soldato Ignoto con il capo dello Stato, Vittorio Emanuele III.

Aldo A. Mola